Associazione Socio-Culturale il Castello San Martino - Piazza Principe Umberto Nr. 7 - 89029 San Martino di Taurianova (RC) 

Ruggero I e II

 

Ruggero I - Incisione, facente parte della serie dedicata ai re della dinastia normanna che si compone dei primi quattro fogli del volume "Effige di tutti i re, che hanno dominato il Reame di Napoli da Ruggiero I Normanno …", stampato a Napoli nel 1602 presso Giovanni Giacomo Carlino. L'autore delle incisioni è anonimo.

Ruggero II, incisione (Napoli 1834-1840), Ariano Irpino, Museo

Civico

Historia de Planitie Sancti Martini

di Antonio Zirino

 

 

Le origini del villaggio di San Martino

fondato dai profughi Taurianensi

 

SAN MARTINO, oggidì fiorente e simmetrica frazione del Comune di Taurianova, prima della metà del decimo secolo dell’opera cristiana, non esisteva; ma è da ritenersi che solamente poche case coloniche si dovevano trovare sparse in “Vallem Salinarum” (come veniva denominato il luogo ove sorse in seguito il VILLAGGIO DI SAN MARTINO.

Verso questo periodo, l’estremo meridionale d’Italia apparteneva ai Bizantini, i quali oltre che Calabria, lo chiamavano pure Sicilia, perchè perduto fin dal principio di tale secolo, il dominio della vicina isola, vollero conservarlo almeno in titolo per soddisfare la loro boria, e per quanto era rimasto loro, cioè dei territori occupati, avevano istituito un governatore a Reggio, che chiamavano “Stratego o duca d’Italia”.

Questi era però sfornito di sufficiente milizia per poter presidiare il litorale calabro, tanto che le genti di queste contrade dovevano fidare esclusivamente sulle proprie forze, nel difendersi dalle incursioni dei saraceni, quando questi erano di gran numero; oppure scamparla con la fuga, quando questi presentavano a orde per commettere stragi o rapine.

Premesso che tali invasioni, ancorché saltuarie, furono una delle cause dei ritardi dello sviluppo economico e sociale della Calabria, ricordiamo che esse rientravano nel quadro delle lotte tra Bisanzio e gli Arabi per il dominio del mediterraneo centrale; anzi la Sicilia venne conquistata da quest’ultimi proprio per la sua importanza geo-politica.

Da precisare pur anche che i saraceni erano tribù nomadi e ribelli che avevano poco in comune con la raffinata civiltà orientale dei califfi; dediti alla rapina, inalberavano la verde bandiera del profeta e, facendo un comune riferimento alla guerra santa proclamata da Maometto,terrorizzavano le popolazioni cristiane, specie quelle costiere, con ripetute scorrerie.

Una di tali scorrerie, definita la più micidiale di quante erano succedute in questa estrema parte di Calabria, fu quella avvenuta nel 951. L’emiro di Palermo, Hasan-ibn Alì, per il mancato tributo dovutogli da Bizantini (nell’anno 925 un patrizio bizantino, Malaceno, delle Calabrie, chiese,ed ottenne, agli Arabi una tregua alle loro scorrerie e stipulò con essi un trattato per il quale questi si impegnavano a rispettare le popolazioni in cambio di un anno in denaro) e perché, venuto a conoscenza che Costantino Portirogenito, per rafforzare il suo mal sicuro dominio sulle province occidentali, vi spediva agguerrite milizie (anno 950),decise di occupare tutta la Calabria e chiesti perciò aiuti al califfo d’Africa,questi mandò Farag Mohadded con un forte esercito di Agarani. Quindi, nell’estate del detto anno, Hasan, con tanta prevalenza di forze, assaltò dapprima Reggio, e invase poi le riviere occidentali dell’estrema Calabria.

I Bizantini, temendo di affrontare l’esercito saraceno, si ripararono ad Otranto e Bari; e così tutte le contrade ebbero a subire il più crudele impeto di guerra dei terribili Saraceni.

Gli abitanti di Tauriana, antichissima città che trovatasi sulla spianata della costa dell’attuale Pietrenere di Palmi, sede di vescovado, era la sola città marittima che ancora durava tutto il suo splendore e, nel versante occidentale dell’estrema Calabria, saputo dell’imminente venuta in quei luoghi dei Saraceni e temendo il peggio, pensarono di salvarsi altrove, poiché nella città non potevano apprestarsi ad una valida difesa, essendo essa sguarnita di mura e scarsa di popolo armato.

La turbe degli Arabi e degli Africani,intanto giunta ai lidi di Taureana e trovandola sguarnita di uomini e di bottino, la distrussero interamente, devastando tutto il territorio circostante. Un grosso numero di taurianensi, per lo più composto da contadini e da mandriani, scrive lo storico Valensise, “si stabilirono di là del fiume Metauro, in una pianura ferace di pascoli e vi costruirono un casale, a cui diedero il nome di SAN MARTINO”.

Da allora la già citata Valle delle Saline prese la denominazione di “DE PLANITIE SANCTI MARTINI”.

 

Il Castello di San Martino

Innalzato dai Taurianensi

 

Indubbiamente per i profughi taurianensi, la dimora posta al centro della “Valle delle Saline” era carattere provvisorio, non venendo mai meno in loro la speranza di un imminente ritorno in patria. Nell’apprendere però che oramai Tauriana era stata completamente distrutta dall’incursione saracena e che delle sue messi non rimaneva che terra bruciata, quella dimora da provvisoria divenne stabile. Ciò nonostante non si persero d’animo e completarono la costruzione del villaggio secondo i canoni già fissati in precedenza nei piani generali di ricostruzione e rafforzamento degli abiti di Calabria, dettati dai Bizantini, che prevedevano la scelta per i nuovi insediamenti di luoghi sopraelevati di facile difendibilità, e la costruzione di roccheforti nelle quali poter eventualmente raccogliere le popolazioni che impaurite si erano disperse nei luoghi più inaccessibili della campagna circostante.

E la posizione geografica del VILLAGGIO DI SAN MARTINO assolse egregiamente a questa funzione strategica, infatti, dopo la costruzione del Castello (oggi dell’antico castello esiste solo qualche rudere), che dominava il piano circostante, rappresentò il punto di raccolta dei profughi che si erano rifugiati in vari luoghi dell’estesa “Vallis Salinarum” al riparo da incursione nemiche.

Tenendo fede alla loro religione cristiana e ancor più non dimenticando che la loro città natia, fu antichissima sede di “vescovado” e che essa diede pure i natali a parecchi santi, tra cui: S. Teodoro, S. Candido, S. Proto, S. Grisogno, S. Canziano, Santa Canzianella, che patirono insieme il martirio il 31 luglio 304, S. Fantino Confessore, loro figlio morto nel 336, il quale può considerarsi l’evangelizzatore della città; S. Fantino Abbate, che presiede la distruzione della città, e molti altri, gli abitanti non trascurarono di edificare conventi e chiese.

A tal proposito, il Russo menziona nel suo “Regesto Vaticano” che, OLTRE LA CHIESA DI SAN MARTINO EDIFICATA ENTRO LE MURA DEL “CASTELLO”, “in Planitie Sancti Martini” esistevano altre Chiese intitolate a San Salvatore, S. Cataldo, S. Nicola, S. Maria delle Grazie, S. Maria de Pasa, S. Maria de Palomba. Un chiaro ed evidente segno della loro religiosità è la denominazione, San Martino, del nuovo villaggio, perché intorno al nome del Santo si erano accese le speranze della comunità e che, avendolo elevato quale Santo Protettore, intendeva così manifestare la sua riconoscenza e la sua venerazione per averla risollevata dalle tanto tristemente provate avversità della sorte.

Il villaggio si sviluppò rapidamente, divenendo ben presto un centro civile e religioso di notevole importanza: senza dubbio il più importante nel raggio di oltre dieci chilometri, e perciò divenne sempre ambitissima di chi volesse dominare la circostante pianura.

I SAMMARTINESI (da allora vennero così appellati) diedero pure impulso all’agricoltura, bonificarono la Piana introducendovi la coltivazione dell’olivo, fonte di ricchezza ancor oggi per le nostre popolazioni.

Sebbene altre sventure (riferendoci a fatti bellici) si verificano in tutto l’estremo lembo meridionale della Calabria, LA PIANA DI SAN MARTINO sembra non essere stata intaccata da invasioni nemiche, anche perchè, si ha notizia, fino all’arrivo dei Normanni IL CASTELLO DI SAN MARTINO era inespugnabile e la gente del villaggio “gens libera”, cioè non sottoposta a rapporti di padronanza.

Si può desumere, quindi, che per il “CASTRUM SANCTI MARTINI”, fino al 1058, cioè fino alla dominazione normanna di cui parleremo in avanti, si ha quasi un secolo di oscurantismo storico. Comunque, per la nostra indagine storiografica, conviene soffermarci, anche se non in modo dettagliato su questo periodo perché, seppur oscuro per la storia sulla “PLANITIE SANCTI MARTINI”, tuttavia risulta utile alla nostra conoscenza in quanto in esso vi sono i segni tangibili di una politica che trascendeva gli interessi delle varie comunità calabresi per inserirsi poi in un gioco di contrasti conseguenti ai problemi di supremazia tra il potere Temporale e quello Spirituale, che trovarono nel corso del dodicesimo secolo, in Calabria, il terreno di scontro particolarmente acceso.

Infatti, con la dominazione bizantina, già l’aggregazione dei vescovi al patriarcato di Costantinopoli, aveva portato un malcontento nella Chiesa Romania e, oltretutto la nuova situazione li aveva spogliati pure delle loro possessioni terriere in Calabria, che detenevano all’epoca di Tedosio Imperatore, quando i pontefici Romani cedevano i ricchissimi ma lontani patrimoni siti nell’Oriente ed accettavano in permuta i possedimenti demaniali che i Greci possedevano in Calabria. Da segnalare che a quel tempo, il Patrimonio Calabro era composto di quattro “Masse”, suddivise in ‘Fundi” (come si usa dire ancora oggi in Calabria); l’aggregato di molti “fundi” costituiva la “massa”, da qui il nome di “massari” ai contadini che si applicavano alla coltura di questa.

Dopo inutili tentativi di trattazione di pace con i Bizantini, la Curia Romana, per poter combattere questi, che nel frattempo ebbero rivalsa sui Saraceni, non aveva esitato a ricorrére anche all’aiuto degli Imperatori Tedeschi, Ottone I nell’anno 962, Ottone II nel 981, ed Enrico II nel 1014. I Bizantini, d’altro canto, in quelle circostanze, per combattere i tedeschi inviati dal Papa strettero alleanza con i Saraceni, loro ex nemici, che avevano già invaso la Sicilia e la Calabria. (1)

Gli Imperatori tedeschi ottennero però soltanto un risultato effimero, e furono fedifraghi col Papa. Infatti Ottone I, nell’anno 962, mosso alla conquista della Calabria e della Sicilia, fece formale promessa al Papa Giovanni XII di restituirgli il dominio sui relativi Patrimoni, ivi compresi i territori bizantini dell’Italia Meridionale fino alla Sicilia, se recuperati. (2) Ottone II, fu vinto presso Rossano (981) e poi, disfatto completamente a Stilo, in Calabria il 15 luglio 982.

A questo punto i Pontefici Romani si rivolsero ai Normanni, avventurieri al soldo dell’imperatore bizantino Michele IV, per risolvere definitivamente la questione dei possedimenti terrieri.

 

(1) A. De Salvo, “Ricerche Storiche su Palmi, Seminara e Gioia Tauto”, 1899, Palmi-Tip. Lopresti.

(2) Taccone-Gallucci,”Annales”, anno 962.

 

I Normanni feudatari di San Martino

I fratelli Roberto e Ruggero d’Altavilla

 

Nel secolo XI la Calabria fu conquistata dai Normanni ad opera di Roberto e Ruggero di Altavilla, scopo tenacemente perseguitato dai Normanni fu quello di realizzare uno stato unitario nel Mzzogiorno già diviso in province Bizantine, ducati, longobardi ed emirati saraceni. A tal fine combatterono il particolarismo politico e costrinsero all’obbedienza i grandi proprietari reprimendo l loro tentativo di ribellione; inoltre sostituirono gradualmente il clero con persone di loro fiducia, fondarono nuove sedi vescovili e nuovi ordini di lingua latina.

I normanni, popolo originario dalla Scandinavia avrebbero potuto essere contenuti da uno sforzo militare congiunto di bizantini e romani, ma furono favoriti dallo scisma tra la chiesa d’Oriente e quella d’Occidente, scisma che finì con l’indurre quest’ultima a sposare la causa dell’espansione normanna. E d’altra parte i furbi normanni fecero anche sapere al Papa di essere disposti ad aiutarlo nell’altra lotta che Roma conduceva contro l’impero d’Occidente. È facile quindi spiegarsi perché la chiesa riconobbe Roberto d’Altavilla Duca di Puglia e di Calabria, specie se si considera anche l’impegno del normanno di sottrarre la Calabria al patriarcato di Costantinopoli.

Roberto, figlio di Tancredi d’Altavilla, apparteneva ad una modesta famiglia baronale, povera di terre e ricca di prole, allettato dalla prospettiva militare i fratelli maggiori che nel meridione,schierandosi ora con i Bizantini ora per i Longobardi, avevano saputo ritagliarsi importanti feudi, nel 1047 scese in Italia. Questi, rinvenendo quasi tutta la Puglia già conquistata dai suoi fratelli, con una masnada di giovani audaci e valorosi al suo pari, si spinse nei confini della Calabria. Qui, col rapire bestiame, saccheggiare ville, sequestrare uomini per ricavarne un forte riscatto o bruciando le messi a chi ritardava coll’assassinare i possessori che difendevano i loro beni, con e per queste e altre simili imprese, Roberto fu soprannominato il “Giuscardo”.

Acquistato così il titolo di prode guerriero assoldò gente e molta ne attirò con la promossa di ricchi bottini, con la giustizia nel dividerli, con la presenza risoluta e marziale, con la costanza, con l’astuzia e più tardi con la prudenza nel governare lo stato.

Alla morte del fratello Unfredo (1056) Roberto divenne l’erede del Conte di Puglia. Scomunicato dal Papa Nicola II per tante usurpazioni e violenze commesse, fu dallo stesso papa ribenedetto, ricevendo anch’egli il titolo di Duca di Puglia e Duca di Calabria (1060).

Aveva seguito Roberto nelle sue imprese il più piccolo dei suoi fratelli; Ruggero, che con lui era sceso la prima volta in Calabria nel 1058 scorrendola senza alcun profitto sino a Reggio. Ritornati entrambi in Puglia, Roberto, non smise l’idea di ritentare l’impresa, e non tardò molto a riavviarvi con sessanta cavalieri suo fratello Ruggero, che si spinse sin sugli estremi gioghi meridionali degli Appennini. Ma i calabresi gli si sollevarono contro e perciò Ruggero atterrò il castello di Mileto, assediò Oppido e poi nella Valle delle Saline (in Vallem Salinarum apud S. Martinum….) li sbaragliò completamente, mentre essi si recavano ad espugnare le fortificazioni di SAN MARTINO (castrum quod S. Martinum dicitur), che si mantenevano a lui fedeli (1059). (1).

Ruggero, fermatosi sull’altura di SAN MARTINO, ove sorgeva un castello, sottometteva pure i sottostanti paesi, bruciando le messi, imponendo taglie,quindi quella gente o per timore o per forza fu costretta a riconoscere i Normanni come feudatari. Di là chiamava il fratello Roberto per tentare un secondo assalto contro Reggio, e benché quegli vi accorresse con un buon numero di soldati, riusciti vani tutti i tentativi, fu costretto ad abbandonare l’impresa per il sopraggiungere dell’inverno.

Insorsero delle discordi tra i due fratelli che non durarono a lungo. Ruggero ben presto si sottomise al Duca suo fratello, dal quale rifornito di quaranta cavalli, cominciò a corseggiare nella Calabria, nella Lucania fino al confine col principato di Salerno.

Nell’assenza di Ruggero, gli abitanti di quei paesi della Calabria, già da lui sottomessi, straziati dalla fame, dalla pestilenza, e pure dalle vessazioni dei soprintendenti normanni che riscuotevano i tributi, si ribellarono, trucidando quanti Normanni vi capitarono. Fu allora che fu stipulato un trattato tra i due fratelli, con quale Roberto concedeva a Ruggero metà di tutte le terre conquistate e quelle da conquistare ancora nell’estrema Calabria. Ruggiero, rincuorato da questa concessione, immediatamente ricominciò l’agognata impresa d’impadronirsi di tutta la nostra provincia. Rifornitosi di valorosi guerrieri, in breve tempo sottomise quei paesi che si erano ribellati a lui.

 

(1) il Gaufridus Malaterra, noto critico dei Normanni, così racconta come Ruggiero fugò un gran numero di Calabresi che assediavano il Castello di San Martino…    “mentre il Ruggiero assediava il castello di Oppido, seppe che il vescovo di Casignana e il Presopo di Gerace con un esercito molto agguerrito, andavano ad espugnare un castello, detto di San Martino, posto nella Valle delle Saline, nell’anno dell’incarnazione del Signore MLVIII. Allorché ciò fu annunciato a Ruggiero, questi, abbandonando l’assedio di Oppido, a gran velocità volò sul posto ove quelli, i Bizantini, erano convenuti, Con grande violenza iniziò la battaglia, accerchiando quasi tutti, appena qualcuno potè sfuggirgli delle loro spoglie e di armi e cavalli, fece abbondante bottino. Dopodichè la Calabria, anche se non tutta obbediente, ma certamente tremula per la sua presenza e stava ben attenta a non provocarlo per prima……” (De Reb. Gest. Roger I XXXII).

 

Dopo questo decisivo fatto di armi, SAN MARTINO diventa importante centro operativo dei Normanni.

 

La Contea di San Martino

Il matrimonio del Gran Conte Ruggero nel Castello di San Martino

 

Il successo ottenuto NELLA PIANA DI SAN MARTINO, consentì ai fratelli Normanni di considerare consolidata e sicura la situazione interna alla Regione, perciò poterono concentrare tutti i loro sforzi a superare l’ultima resistenza rappresentata dalla città di Reggio. I normanni si diedero quindi ad una campagna di conquista di Reggio iniziando ad investire i dintorni della città con frequenti incursioni, senza osare di attaccare direttamente le mura della città che già per due volte in precedenza aveva resistito validamente agli attacchi dell’esercito normanno. Reggio era diventata una roccaforte dei Bizantini, in quanto i rifugiati  avevano trovato riparo dentro le sua mura.

Nell’autunno del 1059,finalmente Reggio cadeva nelle mani dei Normanni e con la sua caduta tutta la Calabria restava in mano ai fratelli.

Il Papa, Nicolò II, nel concordato stipulato a Melfi, autorizzò il Guiscardo a procedere al riordino delle circoscrizioni ecclesiastiche nella Calabria; curando soprattutto di ricondurre quelle che ancora non erano in comunione con la Santa Sede, dall’altro lato lo stesso Romano Pontefice riconosceva tutte le conquiste fino a quel momento fatte da Roberto e quelle altre che avrebbero potuto aggiungere in avvenire. A convalida di tale situazione Nicolò II conferiva al Guiscardo il titolo di “Duca della Calabria, di Puglia e di Sicilia”.

Così, conservando il titolo di ducato, la nostra regione passava nel 1060 in possesso degli Altavilla. Meno di cinque anni erano bastati ai due ardimentosi fratelli per strappare a circa si secoli di dominazione bizantina e per trasformarsi da avventurieri in capi di uno Stato. E dal nome della nuova signoria Roberto volle che fosse chiamata “Ducato” la nuova moneta d’argento che gli fece battere dopo la presa di Reggio.

Al principio dell’anno 1060, Roberto, dopo aver insignito il fratello Ruggero col titolo di Conte, tornò rapidamente in Puglia, sempre tormentato della sua demoniaca inquietudine e della sua insaziabile sete di potere. Ruggero restava in Mileto, dove aveva fissato la sua nova residenza.

In questo stesso periodo, Ruggero volle tentare d’impadronirsi della città di Messina; perciò nel settembre del 1060 con duecento cavalli, traversando lo stretto senza avere avuto alcuna insidia, si appressò a Messina. I Saraceni al loro apparire si avventurarono in gran numero contro i Normanni, i quali, fingendo timore,fuggirono a briglia sciolte per attirare così i nemici alla larga distanti dalle mura. Quando li ebbero un po’ lontani, all’improvviso, prima fermandosi, si slanciarono poi con tale impeto contro i Saraceni,che si salvarono soltanto quei pochi che a stento riuscirono a ripararsi dentro le mura della città (ricordiamo che l’opera di sottomissione dei musulmani terminò nell’anno 1091).

Durante la campagna di Sicilia, a Ruggero giunge la notizia della venuta dalla Normandia di Giuditta d’Evreux, sua promessa sposa, con l’altra sorella chiamata Emma, entrambe sorelle dell’Abate Roberto. Ruggero corse ad incontrarla NEL CASTELLO DI SAN MARTINO dove nella Chiesa dedicata all’omonimo Santo, sita all’interno del castello stesso, si celebrarono, al principio dell’anno 1062, sontuose nozze (Ruggero ebbe tre mogli: Giuditta, morta nel 1080, Elemburga, morta nel 1088 e Adelaide, morta nel 1118).

Il cantore delle gesta del Guiscardo, il Malaterra, così racconta: “……..udendo ciò il Conte era gravemente contento. Sia perché da molto tempo la desiderava, perché di illustre famiglia, e soprattutto perché era bellissima,quando più celermente potè, riguardando la Calabria, accelerò il passo per andare incontro alla fanciulla del suoi desideri. Arrivato nella Valle delle saline, NEL CASTELLO DI SAN MARTINO, la fanciulla divenne sua sposa, e poi portandola a Mileto con grande ed armonioso accompagnamento musicale,lì concluse solennemente i festeggiamenti (De Rebus Gestis Rogerii Comites, pag. 35).

Dalla Residenza di Mileto, Ruggero divise i territori in Stati, Ducati Contee, Marchesati e Baronie, assegnandole, come era consuetudine e secondo i costumi militari, a tutti coloro che erano stati compagni d’armi.

AL VILLAGGIO DI SAN MARTINO TOCC0’ ESSERE ELEVATO A CONTEA.

Nell’ambito della CONTEA DI SAN MARTINO, il gran Conte (così veniva chiamato Ruggero), fece sicuramente stabilire, dotandoli di ricchi fondi prediali, Emma figlia di Roberto il Guiscardo, e il marito di lei Pietro Marchisio, in seguito appellato Oddone.

A conferma di questa aggiudicazione, citiamo una bolla del 10 ottobre 1098 del Papa Urbano II: “Religiosae feminae Hemmae. Accipt S. Salvatoris ecclesiam a bea et viro eius Petro Marchiso iuxta VILLAM SANCTI MARTINI aedificatam sub tutela et protectione Apostolicae Sedis; possessiones in Calabria et Sicilia et decimas confirmat, salva Oppidensis episcopi,in cuius diocesi ecclesia sita est, reverentia”. (F. Russo, Regesto Vaticano per la Calabria, vol. V pag. 62).

In questo diploma papale, si dichiara infatti che Emma ed Oddone prendono sotto la loro protezione la Chiesa di San Salvatore, sita nella CONTEA DI SAN MARTINO (sulla collina prospieacente il fiume Marro), ma, contritamente a quanti altri sostengono, essa non è stata da loro edificata. E a comprova di ciò, citiamo una precedente bolla, del 1088, dello stesso Papa Urbano II: “Privilegium pro ecclesia S. Salvatoris, in territori Sancti Martini, Milite, dioc. Consistente” (F. Russo Reg. Vaticano per la Calabria vol V pag. 57).

Sicuramente gli Altavilla, al sommo della gerarchia feudale con il grado di Conte, conservarono la CONTEA SAN MARTINO fino alla venuta degli Svevi.

 

Il Regno di Ruggero II

San Martino sede di Corti o Stati Generali

 

Dopo la morte del Conte Ruggero avvenuta all’età di settant’anni (1101), la moglie Adelaide rimase reggente per undici anni durante i quali favorì la ripresa della vita religiosa proteggendo sia il monachesimo latino sia quello bizantino. Inoltre essa portòla corte e l’Amministrazione centrale da Mileto a Messina,per cui il fulcro della contea di Sicilia e Calabria si spostò verso l’isola. Essendosi dimostrati netti i discendenti di Adelaide, la Calabria passò a Ruggero II di Sicilia,con una solenne cerimonia tenutasi a Reggio nel 1122, ma i feudatari calabresi non erano disposti alla sottomissione. Ruggero II allora intervenne con molta energia e nel 1129,alla corte di Melfi, i baroni furono costretti a giurargli fedeltà. Nella stessa sede il “gran re” riunì sotto il suo comando tutta l’Italia meridionale e sanzionando quali dovevano essere le città,i castelli e le terre da destinare a Sede di Parlamenti, fissò la CONTEA DI SAN MARTINO quale Sede di Corti o Stati Generali.

È fuori luogo ma nel contempo utile alla nostra indagine storiografica far presente a chi legge che: nel passato era avvenuto che, occasionalmente, i baroni della PIANA DI SAN MARTINO e del meridione tutto avessero giurato, di solito per un periodo molto limitato, per rispettare i diritti e le proprietà delle classi non cavalleresche, ma avevano sempre mantenuto il diritto al feudo, per mezzo del quale potevano, e si facevano, sempre la guerra a loro piacimento. Questa volta le cose erano diverse. Il diritto di feudo veniva abolito dall’alto, una volta per sempre: avvenimento,questo, che non trovava riscontro in Europa al di fuori dell’Inghilterra e della Normandia.

Questa volta non vi furono investiture, nessuna assegnazione di feudo ed ogni cavaliere o barone normanno presente vedeva chiaramente che un’era tramontava e stava per incominciava un’altra. Ora per la prima volta in 45 anni, il meridione si trovava ad avere un uomo forte, capace, deciso a governare. Per l’avvenire le cose sarebbero state diverse.

Ruggero II, nipote del Guiscardo,ebbe pure doti eccezionali nel seguire il risveglio delle energie, nel promuovere la ricchezza, nell’attirare attorno alla sua persona tutte le attenzioni. Mecenate delle arti, delle scienze, delle lettere, sentì il fascino della bellezza, si circondò di una magnificenza quasi orientale, volle gustare le gioie della vita, ed i poeti e gli artisti lo celebrarono con entusiasmo. Fu incoronato nel 1130 con una festosa cerimonia che ebbe luogo nella moschea, ora cattedrale, di Palermo. Fu così fondato un regno, molto, ricco, civile, con ordine e pace interna. Morì il 26 febbraio 1154, a59 anni, ed i suoi resti si trovano ancora oggi nel Duomo di Palermo. Con la sua morte finirono i tempi migliori della storia della Calabria e dell’età della monarchia meridionale.

Gli ultimi re normanni furono Guglielmo I e Guglielmo II, la cui figlia, Costanza d’Altavilla, andò sposa all’imperatore Enrico IV di Svevia (1185). Morto Guglielmo II, Enrico VI, malgrado l’opposizione delle correnti nazionali normanne, riuscì ad essere incoronato re di Sicilia e di Calabria a Palermo nel 1194,ma morì tra anni dopo lasciando un figlio di tre anni, Ruggero Federico, che salì al trono imperiale col nome di Federico II, nel 1208. egli si trovò dinanzi al solito problema dell’anarchia baronale. All’uopo emanò un editto, il “de resignandis previlegiis”, con cui ordinò una revisione di tutti i titoli di possesso e delle concessioni feudali.

Federico II fu pure fautore di un tipo di monarchia assoluta: fece distruggere i castelli e le opere di difesa costruiti nel periodo bizantino dai grandi proprietari. IL CASTELLO DI SAN MARTINO rimase in piedi in quanto, come già da noi riportato, fu costruito da profughi Taurianesi e non già da proprietari terrieri.

Il pensiero politico di Federico II di Svevia si trova soprattutto nelle Costituzioni di Melfi (1231) con le quali la Calabria fu divisa in tre parti: Calabria propria, che conteneva l’odierna provincia di Reggio e parte di quella di Catanzaro; Val di Crati che abbracciava Cosenza e tutta la parte occidentale di tale provincia; e la Terra Giordana che comprendeva la parte orientale della province di Cosenza e Catanzaro.

Sotto il governo di Federico II ebbe inizio la nuova lingua volgare italiana: “la lingua siciliana” e le prime rime italiane sono tutti di poeti appartenenti alla “Scuola Siciliana”. Morto Federico (1250), suo figlio Corrado si affrettò di venire in Italia e prendere la corona del regno; ma improvvisamente morì in viaggio, non senza il sospetto di essere stato avvelenato. Il regno fu allora affidato, per acclamazione, a Manfredi, che Federico aveva riconosciuto come suo figlio naturale. La sua amministrazione però non fu che una lotta continua contro il Romano Pontefice che voleva a tutti i costi togliere lo Stato agli Svevi. Gran parte delle battaglie si svolsero, come vedremo, in seguito, nella PIANA DI SAN MARTINO.

 

Il periodo Angioino

San Martino teatro di cruente battaglie

 

Era appena scomparso Corrado IV, colpito da malaria, destinato da Federico II a erede dell’Impero, che già scoppiavano aspre rivalità tra gli uomini sui quali lo stesso Federico II aveva profondamente contato di conservare il regno meridionale alla casa Sveva: Manfredi e Pietro Ruffo (nativo di Tropea, da servo nella famiglia Sveva era divenuto Conte di Catanzaro). I veri motivi che condussero alla mortale inimicizia tra i due non sono noti; certamente saranno stati diversi. Uno dei più gravi fu forse il contrasto tra i Lancia (una di loro, Bianca, era stata vicina all’ imperatore e Manfredi era il frutto di quest’amore) e i Ruffo. Entrambi si richiamavano dapprima alla funzione di procuratori dell’erede Svevo, lontano e ancora minore ma legittimo per giustificare ogni loro provvedimento. Ma non furono tempi quieti sino al momento in cui anche Corradino sarebbe stato in grado di intraprendere il lungo viaggio attraverso le Alpi. Anche la cura aveva sfruttato il fattore tempo, cercando con una vigilanza sempre più attenta di impedire che l’incubo dell’“unio regni ad imperium” le procurasse ancora una volta tempi difficili. Così procuratori Svevi rivali furono indotti a considerare il modo migliore per assicurarsi ognuno a proprio vantaggio, l’eredità Sveva.

Mentre il figlio dell’imperatore, Manfredi, si impegnava con tutte le sue forze a riguadagnare il regno meridionale, il Ruffo si accinse a unificare la Sicilia e la Calabria in una signoria a lui sottoposta.

Ancora una volta teatro di cruente battaglie fu la PIANA DI SAN MARTINO. L’esercito di Manfredi andava, nel frattempo, conquistando quasi senza contrasto molti luoghi della Calabria meridionale. In Seminara (1255), poco distante della CONTEA DI SAN MARTINO, stavano riuniti i capitani del Ruffo: Carnevalerio da Pavia, Boemondo da Oppido e Fulcone Ruffo. Di questi, Carnevalerio e Boemondo si unirono, tentati da Gervasio di Martina a Manfredi. Ma Fulcone, nipote del Conte Ruffo, che aveva ricordo del fratello Girolamo imprigionato pur essendo in possesso del salvacondotto, non ne volle sapere. Ritiratosi. Perciò, ”in Castro suo S. Christinae”, rafforzò in modo inespugnabile questo castello, come pure quello di Motta Bovalino. Gervasio volle corrergli alle calcagne, ma vedendo clic non poteva espugnare quei castelli in poco tempo. Occupò dapprima Gerace e subito dopo il campo “In Planitie Sancti Martini” da dove aveva opportunità di tenere a bada Fulcone, come pure di minacciare il castello di Stilo, difeso da Berardo Tedesco. Gervasio, con il suo quartier generale dimorò presso il CASTELLO DI SAN MARTINO.

Nel mentre che Gervasio di Martina, coadiuvato da Corrado di Truichio tenevano il campo in SAN MARTINO, i Messinesi improvvisamente assaltarono la città di Seminara, saccheggiandola e seminandovi morte. Ma a Gervasio non andò giù l’impresa degli isolani e, diviso in tre parti il suo esercito, una parte la lasciò a sorvegliare le mosse di Falcone e una seconda, sotto le direttive di Corrado, si diresse verso i piani della Corona per sbarrare il passo ai messinesi mentre ritornavano verso Reggio e la terza parte, con Roberto D’Archia seguì le loro tracce con l’aiuto dei seminaresi che speravano di vendicarsi e recuperare i loro beni predati dai siculi. Sui Piani della Corona, nei pressi del monte S. Elia, vi fu una cruente battaglia con la vittoria di Corrado che era giunto per primo provocando sconcerto tra i messinesi che non s’aspettavano una rivalsa. Quelli che riuscirono a scappare furono poi scoperti, e i più, uccisi, dai seminaresi per i boschi e lungo le vie del ritorno. Così la vicina città di Seminara fu riscattata.

Nel 1256 tutta la Calabria era dominata da Manfredi, tranne Santa Cristina e Motta Bovalina, che Falcone continuava a difendere con tenacia. Manfredi, nel mentre ordinava ai suoi di occupare la Sicilia, poneva ancora l’assedio ai castelli di Fulcone che ancora non si dava per vinto se non quando vide che anche Messina, come altre città dell’isola s’era piegata al dominio dello Svevo. Così nell’anno 1258 Manfredi ebbe la sua potestà in tutta la Calabria. Successivamente, dopo la presa di Napoli, Manfredi, facendo intendere che Corradino fosse morto in Alemagna, si appropriò il titolo di Re di Sicilia, facendosi incoronare nel duomo di Palermo.

Il 6 febbraio 1266 Manfredi morì eroicamente nella battaglia contro Carlo D’Angiò, presso Benevento. Carlo, uscito vittorioso, andò diretto a Napoli ed i Napoletani che prima erano contentissimi della signoria di Manfredi, ora acclamarono il nuovo Sovrano. Il Papa Clemente IV conferì a Carlo I D’Angiò l’investitura e la corona di re di Calabria, di Sicilia e di Puglia. Napoli sotto Carlo divenne la capitale della Monarchia. Ebbe inizio così il periodo Angioino. Corradino nell’ottobre del 1268 fu decapitato in Napoli, per opera dell’ingeneroso e crudele Carlo I.

Carlo I D’Angiò confiscò tutte le terre dei sostenitori degli Svevì e le assegnò ai suoi amici francesi. Ma un pò per l’atteggiamento altero degli angioini, un po’ per la simpatia che il popolo aveva ancora verso gli ex normanni-svevi, un pò per la reazione di chi vide lesi i propri interessi, si verificò nel Regno un moto di reazione antiangioina che culminò con la rivolta dei Siciliani alla fine del marzo 1282, la storica guerra del Vespro Siciliano. Ancora una volta San Martino fu teatro di nuove guerre.

 

Gli scontri tra Angioini e Aragonesi

I Capitoli del Parlamento di San Martino

 

Nei siciliani nacque, per l’oppressione angioina, l’intenso desiderio di levarsi dal collo il giogo di Carlo D’Angiò. Non mancava all’effetto di ciò che una favorevole occasione; e fu presa.

La prima ingiuria fatta a Giovanni da Procida fu la scintilla che fece incendiare la cosiddetta Guerra del Vespro Siciliano. I siculi posero sul trono di Re di Sicilia Pietro d’Aragona, che era maritato con Costanza, figlia di Manfredi. Il valore dei siciliani espresso nei tumulti,incoraggiò Re Pietro a scendere in Sicilia, a Messina.

Nel frattempo molti francesi fuggiti dalla Sicilia, avevano trovato rifugio in Calabria e particolarmente a Reggio. Carlo, stando a Reggio, munì di presidi tutte le città e castelli litorali, e, disposta una forte difesa lungo la riva del Tirreno fino al fiume Petraie, elesse Luogotenente di questi luoghi suo figlio Carlo, Principe di Salerno, dopodichè partì per Roma.

Il Principe Carlo, vedendo mancargli però il grosso dell’armata che quasi tutta aveva seguito Re Carlo, raccolte quante delle milizie stavano sparse per il litorale tirrenico,diede ordine che tutto il suo esercito facesse la massa nella PIANA DI SAN MARTINO, qui egli pose quartier generale dentro le mura del CASTELLO DI SAN MARTINO e iniziò a predisporre il necessario della difesa nell’eventualità che nemico osasse attaccarlo.

Nella primavera del 1283, il 14 febbraio, Pietro D’Aragona passò con grandi forze in Calabria, dove fu accolto onorevolmente dai reggini. Egli prima d’ogni altra cosa volle farsi padrone della città di Reggio, città chiave della Calabria, poi volle saggiare l’animo dei calabresi e rendersi conto personalmente di come andassero le cose in quella parte d’Aspromonte, aggirandosi per i monti circostanti dove i Castelli di Sino poli, Santa Cristina, Oppido, SAN MARTINO la città di Seminara (difesa dalla guarnigione francese composta da circa 800 uomini) e Solano. La ricognizione del Re di Sicilia avvenne il 20 febbraio e lo stesso giorno decide di formare gli alloggi del suo esercito nei pressi di Solano, sui Piani della Corona, poco distante da San Martino, su alpestri e selvatici monti, ma sicuro da eventuali assalti francesi. L’ostilità ebbe inizio allorquando i siculi vennero a conoscenza che a Lagrussana nei pressi di Sino poli v’era un presidio con 500 uomini francesi capitanati da Rimondo da Baux. Alcune brigate di Siculi-Almogaveri (mercenari al soldi di Re Pietro), di notte, vi diedero assalto e con disumana ferocia uccisero, scannandoli, il più dei francesi cogliendoli nel sonno. Non riconoscendolo, uccisero pure Raimondo. Pochissimi si salvarono con la fuga nei boschi della montagna.

Il 19 marzo successivo, Re Pietro, da una spianata fu avvertito che a Seminara s’era alloggiato per riposare dal viaggio, Arrigo Barrotta, tesoriere di Re Carlo, e che teneva con se circa seimila once per gli stipendi dell’esercito francese, di notte, silenziosamente, forte di 300 cavalieri e 5000 fanti,sferrò l’attacco alla città. I francesi con valorosità e coraggio cercarono di resistere, ma nulla poterono all’urto violento degli assalitori. In seguito Re Pietro volle che Seminara fosse rifatta di mura e che vi si collocasse un forte presidio di 500cavalieri e 2000 Almogaveri al fine di evitare qualsiasi ritorsione da parte del Principe di Salerno, arroccato nel Castello di San Martino.

Il re di Sicilia, incoraggiato da questi favorevoli successi,occupò altre terre vicine al campo nemico, e gli abitanti di questi luoghi, stanchi dell’oppressione angioina, parteggiarono a favore dei siciliani.

Il principe di Salerno, che col suo esercito continuava a stare nella PIANA DI SAN MARTINO, ebbe sentore dell’avvicinarsi del predominio aragonese, e d’animo mite e religioso, com’egli era, per calmare l’avversione che i popoli suoi domini nutrivano contro la sua gente, per gratificarli, CONVOCO’ NEL CASTELLO DI SAN MARTINO, IL 30 MARZO 1283, UN SOLENNE PARLAMENTO di Prelati, Baroni e Deputati di tutte le città della terraferma, ove furono proposte, discusse ed approvate le nuove Costituzioni della Monarchia.

Riportiamo quanto, a proposito, ebbe a scrivere l’Amari in “La Guerra del Vespro Siciliano” quinta edizione pag. 189 – 190, Torino 1852:

“……..Perchè ai prelati, conti, baroni, cittadini, probi uomini, in gran numero adunati (novella temperanza de’ governanti angioini), chiedeva il principe i sussidi, e gli erano assenti in merito dalla riforma, mai abbozzata già nei capitoli del dieci giugno dell’ottantadue, e peggio osservata, della quale or trattandosi con quei grandi e rappresentanti della nazione, nuovi capitoli sancironsi e pubblicaronsi in questo parlamento medesimo, il dì trenta marzo milleduecentottantatre. Cominciavano con accettare apertamente in che orrendo servaggio e povertà fosse veduto il reame, per vecchia colpa, diceasi, dei tiranni svevi, e fresca malizia dè ministri e officiali del Re, tradenti il suo paternale buon volere. Larghissimi indi i favori conceduti o raffermi agli ecclesiastici, per lor averi, persone, case ed autorità; che si corse fino ad accordare la franchigia delle tasse su lor beni creditari, e, strano capitolo in una riforma di abusi, si ordinò la punizione civile degli scomunicati. Gli aggravii che più ai baroni incresceno furon ricocati, moderato il servigio militare; disdetto ogni impedimento a matrimonii delle figliole, e alla scossione dei giusti aiutorii (quest’era il vocabolo) su i vasalli; ristoratoli privilegio del giudizio dè pari; cessata la molestia dei servigi al fisco. A beneficio di tutta la nazione, il principe francò di dogane il trasporto delle vittuaglie da lungo nel regno; promesse coniar buona moneta; vietò le inquisizioni spontanee dè magistrati; menomò la taglia per gli omicidi non provati; consentì i matrimoni delle figliole dè rei di fellonia; corresse gli abusi dè servigi e le baratterie degli officinali, statuì,il fisco non rivendicasse beni, altrimenti che per decisione di magistrato; non incorpasse le doti alle mogli degli usciti; né gli artieri si sforzassero a racconciar le navi regie,né la città a murar nuove fortezze; i giustizieri e altri officiali, usciti dalla carriera restasser nel paese quaranta giorni a rispondere di mal tolto. Quanto alle collette e altre imposte generali e parziali, il principe bandì: godessero i cittadini del reame di terraferma di tutte le franchigie e gli usi dè tempi di Guglielmo il Buono. Ma sendone oscuro ormai le memorie, rimetteva in Papa Mertino descriver quelle consuetudini entro due mesi; comandava che due legati d’ogni giustizierato, a tale effetto si trovasseroprestamente innanzi il papa; intanto nulla fornirebbero le città e provincie,né anco in presto, fuorché nei casi stabiliti dalle costituzioni, in ultimo, richiamò in vigore i recenti capitoli di Re Carlo, a vegliar la osservanza dè presenti, deputò inquisitori a posto in ogni città e terra……”

 

Il Castro di San Martino

Da Contea a Casale di Terranova (1303)

 

Con i 46 capitoli del SOLENNE PARLAMENTO TENUTO IN SAN MARTINO (il 16 settembre 1285) Papa Onorio con due Statuti raffermava nel primo, con l’apostolica autorità, tutti i privilegi ecclesiastici decretati NEL PARLAMENTO DI SAN MARTINO; col secondo, dopo un lungo preambolo, che opponeva al tutto la ribellione dei Siciliani alle ingiustizie del governo, trascrisse ed ampliò le leggi del medesimo parlamento, dandone altre a guarantigia delle persone e dell’avere in ogni classe di sudditi. (Ravnahf Ann. Eccl. 1285 43 e segg), furono corretti molti abusi dei feudatari e degli ufficiali del governo e si concedevano ai sudditi molte franchigie e garanzie.

Cosicché, cessato nel popolo il malcontento, a Pietro D’Aragona non riuscì più di estendere maggiormente le sue possessioni in Calabria e se ne ritornò a Messina (14 aprile 1283), tralasciando l’impresa di Calabria.

Frattanto, il Principe di Salerno, non temendo più nuove incursioni da parte di Pietro e a causa della malaria, delle febbri debilitanti e mortali, che riducevano a mal partito l’esercito, accampato NELLA PIANURA DI SAN MARTINO, e che mietevano vittime anche illustri come il conte Pietro D’Alecon, e che v’era pure penuria di vettovaglie e di strami. il giorno 19 aprile levò il campo da San Martino e pose gli alloggiamenti sulla marina di Nicotera, sia per sfuggire alla pestilenza, sia perchè lì erano possibili i rifornimenti per via mare che Re Carlo faceva giungere dalla Puglia e ancora più per essere pronto all’imbarco, perchè nella sua corte d’accordo e con gli aiuti del Papa. s’era fatto il disegno di conquistare nuovamente la Sicilia: tanto ché s’era preparata la flotta, in diversi arsenali del regno, come pure in quello della marina di Nicotera.

Il Principe Carlo, da Nicotera, non trascurò di lasciare senza protezioni i suoi territori e, l’ 11 luglio del 1283, elevò il milite Nasone di Galarano, a capitano di milizie per custodire e difendere il CASTELLO DI SAN MARTINO e la terra di Seminara: la quale, per la partenza e l’abbandono dei Re Pietro, era ricaduta in potere degli Angioini, come egualmente tutta la Calabria da Reggio in fuori. L’Ammiraglio aragonese, Ruggiero Lauria, figlio di quel Riccardo di Lauria, caduto accanto a Manfredi nella battaglia di Benevento, fedele a Re Pietro, nel frattempo, venuto a conoscenza che il Principe di Salerno, non più sicuro di stare in Calabria, navigava per la volta di Napoli, raccolse con celerità una armata di quarantacinque galee, e spintala a tutte vele, raggiunse il principe nel golfo di Sorrento e lo costrinse alla battaglia (5 giugno 1284). Il Lauria fece finta di tirarsi indietro, come Vinto da timore, e spinse Carlo a seguirlo incautamente nel largo. Allora Ruggiero, serrandosegli addosso in un attimo, gli prese le navi e lo fece prigioniero con altri. Fiero di questo prezioso bottino, ritornò a Messina e dispone che lo sventurato principe fosse rinchiuso nelle segrete di Mattagrifone.

Re Carlo, divorandosi di rabbia a sapere nelle mani del nemico il suo figliuolo, si precipitò dalla Francia in Italia e il 7 luglio dello stesso anno si affrettò ad assediare Reggio, per impossessarsene prima di passare a Messina. Sopraggiunto, intanto, l’inverno, Re Carlo, non potendo continuare l’assedio, si ritirò a Brindisi. Così Ruggero di Lauria, che si trovava con la sua flotta a Messina, ripassò in Calabria e vi si insignorì di Tropea, di Nicotera, di Terranova e di altre città della Calabria e Basilicata.

All’entrare dell’anno 1285, Re Carlo morì a Foggia; e il Lauria, preso maggiore animo dalla morte del nemico, proseguì le sue imprese in Calabria. Nell’anno seguente, morto pure Re Pietro, Giacomo gli succede, nel reame dì Sicilia, e nel regno d ‘Aragona, Alfonso. Quest’ultimo, all’insaputa di Giacomo, trattò la pace con gli Angioni in Campofranco. Intanto, il Principe Carlo, lasciato libero dalla sua prigionia, aiutato e sciolto d’ogni obbligo dal papa Nicolò IV, muoveva guerra contro gli Aragonesi in Calabria e in Sicilia, perciò re Giacomo, con una flotta di quaranta navi, e con un forte esercito di quattrocento Cavalli e diecimila fanti passò a Reggio e il 15 maggio 1289 invase la costiera del versante occidentale della Calabria, procedendo simultaneamente e di accordo con la flotta, comandata dal Lauria; e così espugnò Sinopoli, Santa Cristina, Bovalino, Seminara, SAN MARTINO e molte altre città, terre e castelli.

Le diatribe tra Carlo II e i fratelli Giacomo e Federigo (questi succeduto ad Alfonso, morto il 18 giugno 1291 senza lasciare figli) si conclusero con una pace onorevole, siglata nell’agosto 1302 a Caltabellotta. A Federico rimase la Sicilia con le isole attigue; Carlo, acconsentendo il matrimonio della stia terzogenita Leonoro con Federico, riebbe Reggio con tutta con tutta quella parte della Calabria occupata dai Siciliani, lasciando per vicario generale del Regno, il suo primogenito Roberto Duca di Calabria.

Ruggero di Lauria, che si era già manifestato ambizioso, cupido di ricchezze e perfido, prendendo preteso di alcuni dissensi, passò al soldo degli Angioni. Ruggero, già feudatario della terra di SAN MARTINO, di Terranova e di altri siti, capì ben presto che il CASTELLO DI SAN MARTINO non offriva più sicurezza militare, ed incrementò lo sviluppo di Terranova, posta sopra uno sperone di montagna, dominante quasi tutta la vallata del fiume Marro, fino a farla diventare sede di CONTEA, con giurisdizione su gran parte della piana e sul VILLAGGIO DI SAN MARTINO. Cosicché il CASTRUM SANCTI MARTINI perse la sua importanza strategico-militare-economica, che era divenuta parte preponderante per circa tre secoli (Xl — XII — XIII) nella realtà storie della regione.

 

L’Associazione Socio Culturale “Castello onlus” rivolge un ringraziamento particolare all’amico prof. Antonio Zirino per la gentile concessione.

La storia di San Martino è stata pubblicata sul mensile “Questa Città” negli anni 1992 - 1993

 

 

 

Ruggero d’Altavilla, Gran Conte di Sicilia

Robert de Grandmesnil celebra le nozze di Ruggero e Giuditta d'Evreux

(dalla Tapisserie du Château de Pirou, Normandia)

 

 

il luogo dove sorgeva il castello

 

 

 

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